di Radu Mihaileanu
(Francia, Israele, Romania, 2005)
Sinossi
Schlomo, bambino etiope di famiglia cristiana, durante l’operazione Mosè del 1984 viene costretto dalla madre a fingersi ebreo per essere spedito in Israele ed avere la possibilità di salvarsi la vita minacciata da una terribile carestia. Giunto nella “terra promessa” si finge orfano e viene adottato da una famiglia di ebrei sefarditi di origine francese e di idee progressiste. La sua infanzia prima e la sua adolescenza poi sono però tormentate dalla mancanza della madre e dalle difficoltà nello sviluppare un senso di appartenenza alla famiglia e alla comunità. Schlomo è un ragazzo intelligente, eccelle nello studio della religione e delle materie scolastiche e, in qualche modo, riesce anche a integrarsi nella società israeliana. Ormai adulto si trasferisce in Francia dove consegue la laurea in medicina e, tornato nel suo paese, prende servizio come medico militare e viene ferito mentre cerca di soccorrere un bambino palestinese. Poco dopo si sposa con Sarah, il grande amore della sua giovinezza, alla quale rivela il segreto delle sue origini. Su consiglio della moglie decide allora di riconciliarsi con il suo passato andando alla ricerca delle sue origini. Ed è proprio in un campo profughi organizzato da “Medici senza frontiere” in Africa che finalmente ritrova la madre e riesce a portare a termine la missione della sua giovane vita.
Introduzione al Film
Il film dell’appartenenza
Radu Mihaileanu, già celebratissimo regista di Train de vie, prosegue con Vai e vivrai la sua personale riflessione sulle luci ed ombre della questione ebraica. In un certo senso questa seconda fatica regisitca parte proprio laddove si interrompeva la prima: tutto il divertente e surreale viaggio del treno ebraico che faceva finta di essere carico di nazisti, si rivelava nient’altro che il sogno di uno “schteltl”, lo scemo del villaggio, sognato al di là del filo spinato di un campo di concentramento. Ed è proprio da un campo profughi che prende le mosse Vai e vivrai, per raccontare una storia di speranza, altrettanto surreale ed altrettanto vera della precedente. Anche qui si tratta di oltrepassare il confine, riuscire ad agguantare il treno della speranza rappresentato dal simbolico rimpatrio dei “falasha”, gli ebrei dell’Africa, antichi discendenti di Salomone e della regina di Saba. L’operazione Mosè, forse uno dei più assurdi progetti tesi a potenziare la presenza ebraica nei territori palestinesi, ha rappresentato per le popolazioni dell’Etiopia una vera e propria manna dal cielo. Mihaileanu, però, all’arma della retorica preferisce sostituire l’ironia, e questa diventa il mezzo ideale per gettare uno sguardo smaliziato e limpido sul millenario senso di appartenenza del popolo ebraico. Quello che, in proporzione minore, dev’essere stato il problema di convivenza del neonato stato di Israele, qui viene amplificato dalle mastodontiche differenze culturali. Nei mesi immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale, centinaia di migliaia di persone con lingue, tradizioni, culture diverse si sono trovate a dover condividere una terra, a dover costruire una nazione, una patria. Una dinamica fanta-politica che, ovviamente, nasconde insidie e complicazioni più o meno evidenti. Mihaileanu, autore anche del romanzo omonimo uscito parallelamente al film, si diverte ad immaginare una situazione surreale ma plausibilissima: un bambino cristiano che si finge ebreo per salvarsi la vita. Basta un espediente semplice come questo per mettere in luce le mille contraddizioni della vicenda, e per porre altrettante domande scomode come: cosa significa essere ebrei? ci si può sentire ebrei eppure non esserlo? tutti gli ebrei hanno gli stessi diritti e pari doveri? è solo il nome del padre, della madre, del nonno e degli altri antenati che certifica l’origine? è meglio essere credenti e non praticanti oppure praticanti ma non credenti? di che colore è la pelle di Dio? Sono domande buffe ma di una serietà angosciante, che il regista alleggerisce con l’ironia, ma allo stesso tempo approfondisce in un meccanismo a spirale tipico del dibattito teologico della religione ebraica. Interessante anche, dal punto di vista stilistico, il continuo ricorso alla macchina a spalla, a suggerire un realismo che vada al di là della credibilità della vicenda, aggiungendo, appunto, plausibilità. Inoltre non possono e non potevano mancare riferimenti precisi all’attualità ed alla storia più o meno recente dello stato di Israele. Il regista è ben attento a non prendere posizione né sul conflitto israelo-palestinese, né tanto meno sulle origini del problema. Del resto le storie personali raccontate dal film sono talmente intricate che tutto il resto non può che diventare un costante, quindi inascoltato, rumore di fondo. La scelta della porzione di vita che si sceglie di raccontare è decisamente ingombrante, e Mihaileanu non perde nemmeno un’occasione per allargare il suo discorso il più possibile. Il film ne esce indiscutibilmente appesantito, quasi come tre o quattro film in uno, tanto che sono proprio tre gli attori che si trovano ad interpretare lo stesso personaggio nelle varie fasi della sua vita. Un affresco che abbraccia almeno vent’anni di storia recente, con la pretesa, piuttosto pretenziosa, di raccontare ogni singolo avvenimento ponendolo a cavallo tra il privato e il pubblico. Inevitabile, passate le due ore di proiezione, l’insofferenza nei confronti di un serpeggiante sentimentalismo da melodramma, e il timore di essere costretti a seguire Schlomo fino alla tomba. L’incontro finale di Schlomo adulto con la madre, al di là dell’evidente forzatura, rappresenta insieme un cerchio che si chiude ed una ottimistica apertura alla speranza.
Il ruolo del minore e la sua rappresentazione
Va e diventa
Il piccolo Schlomo, prima di dover dare l’ultimo saluto alla madre, riceve da lei due ordini ben precisi: “va e diventa”. Questi imperativi segnano l’intera esistenza del protagonista, costituiscono una sorta di motivo costante che Schlomo cerca di seguire come se fosse un automa. Ma il vero problema è che Schlomo non è affatto un automa, ma anzi un bambino traumatizzato dalle morti del fratello e della sorella, avvenute nel campo profughi e durante gli interminabili viaggi, e distrutto emotivamente dalla necessità di abbandonare la madre. E poi Schlomo non è affatto il suo vero nome. Il piccolo protagonista, che è cristiano con una vaga consapevolezza, è costretto a ripudiare la propria appartenenza poiché per essere salvato gli si impone di dichiararsi ebreo. Ovviamente la rinuncia alla propria cultura e tradizione religiosa è per lui ancora più dolorosa perché viene vissuta come un ulteriore allontanamento dalla madre. E la madre viene quasi divinizzata dal piccolo Schlomo che, rivolto alla luna, si produce in interminabili monologhi. Tuttavia, passate le iniziali difficoltà nell’istituto per orfani, il protagonista trova in una famiglia adottiva il calore e l’affetto di cui ha bisogno. Ben presto la madre adottiva diventa una confidente ed una complice, tanto da scatenare l’invidia e la gelosia del fratellino più piccolo. Yoram, questo il nome della madre, si batte perché Schlomo venga accettato dalla comunità al di là del colore della sua pelle. Una vera e propria questione razziale che si aggiunge a quelle già esposte. Schlomo reagisce scegliendo lo studio come strumento di riscatto e come modo per essere accettato: se essere ebreo significa conoscere perfettamente le leggi della Torah e saperne disquisire dottamente, lui si impegna per dimostrare di essere un ebreo migliore di tanti altri. Allo stesso tempo non perde il contatto con le sue origini: si reca periodicamente dall’autorità spirituale degli ebrei etiopi per scrivere lunghe lettere alla madre e per cercare di condividere idee e pensieri con una persona del suo stesso paese. Il Qes Amhra diventa per Schlomo una figura a metà tra il padre, il consigliere spirituale e lo psicanalista. Nell’adolescenza il senso dell’appartenenza diventa urgente e doloroso, e Schlomo trova uno sfogo nelle liti con il Qes Amhra, nei confronti accesi con il padre adottivo, nelle discussioni dotte con il papy, il nonno adottivo, nel lavoro estivo del kibbutz, in cui può riappropriarsi del contatto con la terra e con gli animali domestici della sua infanzia. E il periodo dell’adolescenza è anche quello del primo vero amore: Sarah è l’unica ragazza che riesce a vedere ed apprezzare la diversità del protagonista e la sua unicità. Il loro amore è osteggiato dal padre di lei, ebreo fondamentalista che rifiuta di considerare i “falasha” al pari degli altri ebrei. Mentre gli echi di guerra cominciano a farsi pressanti nei continui scontri con i palestinesi e mentre la questione razziale sta diventando preoccupante, Schlomo si trasferisce a Parigi per gli studi universitari. Non ha dimenticato, in fondo, l’ordine della madre, e sente di voler diventare dottore. Al suo ritorno in patria è ancora con una realtà incomprensibile però che si trova a dover fare i conti. Animato da un puro ed ingenuo sentimento di amore verso il prossimo, Schlomo vorrebbe salvare tutto il genere umano e si ritrova in una stanza di ospedale colpito dai proiettili palestinesi. Ancora una volta è vittima di una contraddizione insanabile: proprio lui che non riesce a sentire un senso di appartenenza, lui a cui è in parte negato un vero senso di appartenenza, viene scelto come obiettivo dal nemico, colpito perché ha indosso l’uniforme che appartiene alla parte avversa. Dopo il matrimonio con Sarah non gli rimane che portare a termine la propria missione e ricongiungere i fili sparsi della propria esistenza. Quello che si presenta al cospetto della madre in un incontro fortunoso nel campo profughi non è un bambino che è riuscito a diventare ebreo, e nemmeno un piccolo etiope che ha coronato il sogno di aiutare gli altri: Schlomo è semplicemente un bambino che è riuscito nello straordinario intento di diventare uomo e che, quindi, può sentirsi parte dell’umanità.
Riferimenti ad altre pellicole e spunti didattici
Vai e vivrai per i temi affrontati ed il linguaggio utilizzato si presta alla visione per le scuole medie superiori. Il film può essere utile per approfondire le tematiche legate alla nascita dello stato di Israele ed ai problemi della questione israelo-palestinese anche perché offre uno spaccato della durata di circa vent’anni piuttosto preciso e completo. Sul tema dell’ebraismo si suggerisce anche la visione di Train de vie (Radu Mihaileanu) e La vita è bella (Roberto Benigni) che affrontano con grande ironia il tema dell’olocausto, mentre sul tema dello sradicamento e dell’integrazione si consiglia la visione di La sorgente del fiume (Theo Anghelopoulos) che racconta di un esilio volontario dal proprio paese di origine, Cose di questo mondo (Michael Winterbottom) che racconta l’odissea di un piccolo immigrato. Sul senso dell’appartenenza, infine, The Believer (Henry Bean) rappresenta una riflessione attuale e feroce sul conflitto interiore di un ebreo che non si sente rappresentato dalle proprie origini. Ludovico Bonora