Figure dell’assenza e della falsa rappresentazione nelle descrizioni familiari delle ultime stagioni cinematografiche
di Mauro Caron*
Pubblichiamo integralmente l’articolo di Mauro Caron sulla rappresentazione della famiglia nel cinema contemporaneo. Si ringrazia la redazione di SegnoCinema per la disponibilità alla pubblicazione del materiale. Il set caotico Il cinema nel suo sviluppo storico accompagna e rappresenta “naturalmente” (in realtà in modo naturalmente ideologico) le trasformazioni delle società da cui è espresso e prodotto. Da sempre quindi il cinema rappresenta quella che è la forma naturale e primaria dell’organizzazione sociale, la famiglia. Basta scorrere l’elenco dei titoli dell’ultima stagione per accorgersi che la tematica della rappresentazione familiare attraversa in modo trasversale generi, paesi, sensibilità autoriali e cinema commerciale, piccole produzioni e blockbuster hollywoodiani. Il cinema di famiglia diventa un metagenere che contiene elementi prelevati da tutti gli altri generi, un meta-set capace di ospitare drammi e commedie, thriller e horror, western e musical, romance e dramma sociale, fantascienza e film d’introspezione psicologica. Set e ruoli sono d’altra parte termini utilizzati anche in campo psicologico, per descrivere ambienti d’interazione psicologica e funzioni che i vari attori del rapporto vengono a rappresentare; la famiglia si configura come un set caotico, in cui i vari componenti recitano una parte abbozzata ma non definita, un ruolo basato su un canovaccio che in parte è sclerotizzato dalla permanenza di caratteristiche conservative che lo apparenta alla maschera, in parte è mutevole secondo l’interazione con gli altri attori, legato all’improvvisazione e aperto alla ridefinizione del ruolo. Nel set caotico non esiste direttore di scena; il terapeuta familiare può assumere la figura del critico, che cerca di analizzare e d’interpretare le dinamiche in atto,cercando d’indirizzarne gli sviluppi futuri delle trame ma senza poterle determinare con esattezza. Tutto in famiglia È legittimo chiedersi quali siano le caratteristiche assunte dalla rappresentazione cinematografica della famiglia, trentacinque anni dopo che l’antipsichiatra David Cooper ne ha decretato la morte. Da un’analisi dei titoli delle ultime stagioni cinematografiche appare evidente che la famiglia classica è una figura decisamente regressiva, perfino nella forma tradizionale e spesso ideologicamente ipocrita del nucleo primario cui si ritorna dopo l’evento drammatico (adulterio, lutto, delitto, minaccia, ecc.) che l’ha scompaginata o messa in crisi1. Viene da chiedersi anzi se sia precisamente il cinema il luogo cui chiedere oggi una raffigurazione fedele della situazione della famiglia contemporanea. La reale arena in cui viene rappresentata la famiglia tradizionale, scossa da movimenti interni convulsivi ma ancora riconoscibile nella sua struttura di base anche attraverso l’esposizione aperta di conflitti e di deformazioni, sembra infatti essere oggi la televisione. Il racconto della quotidianità familiare trova la rappresentazione più amichevole e più congeniale nella serialità del telefilm2 e della situation comedy, senza che la ripetitività del format escluda una vera e propria evoluzione della trama e dei caratteri (particolarmente evidente nei casi in cui fra i protagonisti vi siano bambini o adolescenti, la cui crescita impone agli sceneggiatori necessari mutamenti). D’altra parte, quotidianamente sugli schermi televisivi in talk e reality show s’incontrano, si scontrano (soprattutto: il conflitto è la molla di qualsiasi narrazione), si lasciano, s’insultano, si rappacificano, si abbracciano, si ritrovano, piangono l’uno nelle braccia dell’altro mariti e mogli, fidanzati e fidanzate, genitori e figli. Su tutto svetta poi la presenza inquietante e a suo modo modernissima dell’utopia negativa del “padre” di tutti i reality: il Grande Fratello in cui le differenze generazionali come anche i ruoli coniugali sono azzerati e scomparsi; una sorta di famiglia post-atomica composta da eguali dove perfino le differenze sessuali si sfumano (in un’inattività coatta dove i tradizionali ruoli sociali che segnano e determinano le differenze di genere sono annullati) e dove i rapporti interni di convivenza e solidarietà sono irreversibilmente minati da una competitività congenita che vede via via assottigliare la consistenza numerica della famiglia fraterna fino alla sua puntuale e irrevocabile dissoluzione. Figure della famiglia Le figure cinematografiche della famiglia sono senza dubbio figure di crisi: riducendo ai minimi termini, potremmo limitarci a individuare come preminenti e particolarmente significative da una parte quella dell’assenza, dall’altra quella della falsa rappresentazione. Forzando quindi i limiti della categorizzazione, e con tutte le approssimazioni del caso, avremo quindi da un lato le diverse figure dell’assenza, declinate secondo diverse tipologie (desiderio, nostalgia, lontananza fisica e morale); dall’altro lato una doppia rappresentazione, in cui la famiglia viene raffigurata quale i personaggi la rappresentano a se stessi o agli altri: talvolta come falso assoluto, rappresentazione pura in cui la famiglia viene “recitata” da personaggi non corrispondenti ai ruoli naturali; talvolta come nucleo effettivo ma esibito socialmente al fine di nasconderne segreti inconfessabili; talvolta infine come assembramento sociale alternativo, famiglie anomale tali solo nella volontà dei componenti ma non nelle effettive relazioni parentali. Padri in cerca di figli, figli in cerca di padri, assenze e ritorni, false famiglie e famiglie false, nuove forme di famiglia sono i grandi filoni in cui possono confluire buona parte delle rappresentazioni cinematografiche degli ultimi anni. A conferma che si tratta di una consapevolezza eminentemente contemporanea dello stato della crisi della famiglia, si può provare a far scorrere all’indietro la storia del cinema cercando di radunare titoli del passato sotto queste categorie: ci si accorgerà che, eccezioni a parte, a volta talmente significative da assumere statuto archetipico, il numero dei titoli assoggettabili a questa categorizzazione si assottiglia sempre di pin man mano che si risale dal decennio attuale a quello scorso e a quelli ancora precedenti. Nell’esemplificazione successiva ci si atterrà quindi in linea di massima alla produzione dell’ultimo decennio, con qualche escursione a ritroso in casi particolarmente significativi. Figli cercansi Quello della persona adulta e matura, che ha evitato o rifiutato o non ancora affrontato la paternità/maternità ma si trova suo malgrado ad accudire, gestire e infine amare un essere umano più giovane, con reciproco arricchimento affettivo, è un archetipo del cinema di tutti i tempi (II monello di Chaplin), declinato a tutte le latitudini cinematografiche: dagli Stati Uniti di Gloria (Cassavetes e poi Lumet) all’Italia de Le chiavi di casa, dal Giappone de L’estate di Kikujiro al Brasile di Central do Brasil, dalla Gran Bretagna di About a Boy all’Argentina di El cielito3. Nello stesso tempo, il tema attraversa tutte le longitudini di genere, dalla tragedia moderna di Million Dollar Baby sino alle favole a cartoni animati di Monsters & Co., de L’era glaciale4, de La gabbianella e il gatto o di Tokyo Godfathers5. Notevoli similitudini tematiche corrono tra due film dell’ultima stagione del cinema d’autore: Non bussare alla mia porta e Broken Flowers, accomunati dalla storia di un uomo di età avanzata che deve improvvisamente e inaspettatamente affrontare il fatto di avere un figlio. La scoperta della paternità assume per entrambi la forma del viaggio, dello spostamento fisico che ovviamente è un viaggio nel proprio vissuto e nella propria interiorità. È molto significativo comunque annotare come entrambi gli esiti del percorso siano segnati da ambiguità fondamentali: nel film di Wenders i figli sono forse addirittura due, in quello di Jarmusch forse non ce n’e nessuno. L’ambiguita pesa d’altra parte anche sul finale de Le tre sepolture, a sua volta accomunabile a Non bussare alla mia porta per l’ambientazione post-western, dove un anziano cow-boy diventa, durante un viaggio letteralmente crepuscolare, padre severo ed educatore dello stolto poliziotto assassino che ha ucciso quello che per lui era una sorta di figlio/fratello minore adottivo. Sembra che una nemesi storica colpisca a distanza di decenni i protagonisti dell’epoca della rivoluzione sessuale, vecchi uomini con molte donne alle spalle ma senza figli, con molta storia e niente futuro. Tanto tra i deserti del West che negli inanimati quartieri residenziali dell’Est, si aggira il fantasma6 della paternità e della responsabilità. L’omologo giovanile dei personaggi interpretati da Shepard o Murray nei film di Wenders e Jarmusch è Bruno, un balordo senza padri, privo di esperienza e di cultura, il protagonista de L’enfant dei Dardenne, che avuto un figlio non trova di meglio che venderlo per raggranellare un po’ di soldi. E la paternità ai tempi del postcapitalismo e della globalizzazione, dove i figli si comprano e si vendono al mercato come ne La piccola Lola di Tavernier o de Casa de los babys7 di Sayles. Solo l’assunzione di responsabilità salverà Bruno dalla deriva morale ed esistenziale, in un percorso simile a quello del giovane gangster del sudafricano Il suo nome è Tsotsi. Diverso e il caso della Giulia coinvolta ne La guerra di Mario di Capuano, una delle rare figure femminili in un universo prevalentemente maschile, dove si parla molto più di paternità che di maternità. La ricerca appassionata e determinata di una maternità consapevole e voluta a ogni costo inciampa in una frattura che appare non solo generazionale ma sociale, economica, culturale, quasi antropologica. Padri cercansi Il tentativo di superare la separazione tra padri e figli è leggibile anche in direzione simmetrica e contraria. Ci sono figlie alla ricerca di padri carnali (spesso con precisi coinvolgimenti edipici), oltre che in Non bussare alla mia porta, in Vizi di famiglia o in Una canzone per Bobby Long; giovani “orfani” che cercano d’inserirsi in nuclei familiari in grado di offrire sia sicurezze affettive che status socio-economico-culturali (Prova a prendermi di Spielberg ma già in precedenza in modo ancora più icastico nell’iraniano Close-Up o in Sei gradi di separazione), bambini persi o rifiutati se-condo topoi fiabeschi che cercano nuove figure familiari vicarie (A.I., Quando sei nato non puoi più nasconderti); ragazzi che cercano negli adulti figure in grado di trasmettere loro esperienze di vita e saggezza (Monsieur Ibrahim e i fiori del Corano o, in versione femminile, Le ricamatrici); figli adulti alla resa dei conti con Grandi Vecchi (I Tenenbaum), preferibilmente sul letto di morte (Le invasioni barbariche). Se il padre di Big Fish appartiene a quest’ultima categoria, padri talmente più grandi della vita che la loro figura non riesce a essere contenuta nella vita dei figli, il Willy Wonka de La fabbrica di cioccolato un padre celibe, asessuato e incapace di generare, figura tipica dell’immaginario burtoniano e speculare rispetto all’Edward mani di forbice, figlio orfano, parimenti al di fuori dei generi sessuali codificati, non generato da uomo e da donna. Anche nei casi cui si è accennato, i padri sono spesso caratterizzati dal rifiuto della responsabilità: sono poeti che vivono in una bohème fuori tempo massimo, vecchi egoisti e bugiardi, genitori che abbandonano i bambini nei boschi, o malavitosi e personaggi che vivono ai margine o fuori dalla legalità come in Io non ho paura o Tutti i battiti del mio cuore8. All’estremo, i “padri” inaffidabili hanno semplicemente perso il lume della ragione, o rifiutano la realtà o le regole sociali, come già il mitico papà/1upo cattivo di Shining, o il vecchio smemorato ne Lamerica (in cui Amelio rovescia lo schema de Il ladro di bambini o de Le chiavi di casa), o più recentemente il vigilantes fuori di testa de La terra dell’abbondanza, ancora di Wenders, il padre che rifiuta la storia dell’argentino Tutto il bene del mondo, o la madre degenerata di Ingannevole è il cuore più di ogni cosa della Argento9. O ancora, sono padri che hanno abdicato a quella che ne è una caratteristica essenziale e irrinunciabile, l’appartenenza al genere maschile, come succede in Transamerica o in Tutto su mia madre10, o che arrivano a infrangere il tabù interculturale dell’incesto, come in Happiness. Senza famiglia L’assenza dei padri è particolarmente rilevabile in molti film con adolescenti protagonisti. I kids dei racconti di Araki, Korine, Clark o Van Sant, i ragazzini e gli adolescenti di Rosetta, Nemmeno il destino, Sweet Sixteen, 1511, Thirteen, Certi bambini, sono di fatto orfani di una famiglia e di una società che siano in grado di orientarli e guidarli nella vita; i genitori sono cancellati dall’ambito della rappresentazione, o se ci sono, sono personaggi deboli, problematici, immaturi, altrettanto incapaci di prendersi cura dei figli che di se stessi, preferibilmente preda di qualche dipendenza, tarati fisicamente o mentalmente, egoisti senza cuore. È il riconoscimento del fallimento di una generazione incapace di trasmettere alla generazione seguente valori, cultura, insegnamenti. Il portato della società capitalistica avanzata (che coinvolge quindi non solo l’Occidente ma anche i Paesi asiatici più sviluppati economicamente: si pensi a un titolo emblematico come Il fiume di Tsai Ming-liang) sembra comportare l’allentamento o il disfacimento delle tradizionali strutture familiari patriarcali o matriarcali. Nel migliore dei casi i padri sono rappresentanti irritanti o patetici di sistemi socioeconomici pre-postcapitalistici, come la civiltà contadina di Texas o quella industriale di Liberi. Gli adolescenti dei film citati fanno quello che possono: quelli più forti cercano di cavarsela da soli, con qualsiasi mezzo; gli altri si perdono, si drogano, si suicidano, o organizzano una strage per noia [come in Elephant di Gus Van Sant, n.d.r.]. La stessa società incapace di essere padre o madre diventa matrigna e crudele, come gia in Arancia meccanica. Impotente a fornire esempi positivi, non trova di meglio che seguire le leggi dello show-business o fronteggiare la crisi del welfare state creando arene in cui i più giovani sono rinchiusi a scannarsi tra loro, finché uno solo rimanga. Tanto sul set del Grande Fratello televisivo (o nelle derive cinematografiche horror come My Little Eye) quanto nella deserta isola nipponica dove si disputa la Battle Royale12, l’importante non è vincere, né tanto meno partecipare: l’essenziale è sopravvivere. Assenze, ritorni, emancipazioni L’assenza morale diventa talvolta un’assenza fisica o esistenziale. Protagonisti di ritorni impossibili sono i figli morti de La stanza del figlio o di Da quando Otar è partito, il bambino morto e l’amante giovane scornparso de L’amante perduto, il figlio emigrato, una sorta di fantasma remoto e beffardo, che chiede una videocassetta-ricordo ai suoi familiari nell’iraniano Stiamo tutti bene13. Chi può non ritorna, e i ritorni si rivelano drammaticamente inopportuni in Lonesome Jim14 di Buscemi, nel russo Il ritorno, nell’italiano Tu devi essere il lupo, nel tedesco 3 gradi di meno15. Quando esplode, il conflitto generazionale sembra relegato nel cinema d’impegno sociale (Saimir, il cui protagonista si riscatta in modo simile a quello de La promesse, dei Dardenne) o in costume (Shanghai Dreams); o ancora da luogo a rese dei conti tardive, sterili e sempre estremamente dolorose (Quo vadis, baby?, La bestia nel cuore, La pianista, La mala educación, Nove vite da donna, L’eredità, Dogville). Data per perduta dalla società e dal cinema occidentali, la famiglia tradizionale, caotica ma vitale e in genere numerosa e rumorosa, sopravvive e viene accettata con simpatia all’interno del filone della commedia etnica: purché appunto ci sia quella patina di esotismo16 che rende accettabili senza imbarazzi quelli che vengono inconsciamente vissuti come modelli ingombranti e premoderni. The family show Esaurite le figure dell’assenza, entriamo ora nel vero e proprio set dove ha luogo la rappresentazione della famiglia, ovvero nel cinema dove la famiglia viene letteralmente inscenata. La rappresentazione della tradizionale famiglia felice, almeno temporaneamente, sembra essere possibile solo nella dimensione della finzione, della falsità o dell’ambiguità. La famiglia si realizza nella forma del sogno (The Family Man), come inganno (Il genio della truffa, Il talento di Mr. Ripley), come equivoco (La vita è un lungo fiume tranquillo, dove il tema viene precocemente e lucidamente impostato in termini socio-antropologici, sia pur utilizzando categorie già usurate come quelle della contrapposizione ricchi/poveri) come ambiguità delle relazioni (Il figlio di due madri) e dei sessi (Boys Don’t Cry). Se in talune versioni ]’amore familiare da luogo a consapevoli rappresentazioni capaci di dar luogo a interi universi funzionali 17 (nell’esemplare Good bye, Lenin!, nel georgiano Da quando Otar è partito, nell’argentino Il figlio della sposa), in altre l’unione familiare è solo una resa a un obbligo di rappresentazione sociale, allo scopo di nascondere tendenze sessuali non ortodosse (famiglie di comodo mascherano la relazione gay dei cowboys di Brokeback Mountain; ma già Ang Lee utilizzava una fidanzata fasulla per dissimulare una relazione omofila di fronte alla famiglia cinese tradizionalista nel taiwanese Il banchetto di nozze) o per difendere solitudini patologiche, (come in Buffalo ‘66 di Vincent Gallo o nell’uruguayano Whisky 18). In diversi film, di diversa nazionalità, ma con alla base una matrice culturale ebraica che pone al proprio centro il problema dell’identità, infine, la famiglia è un luogo di finzioni dove improbabili armonie vengono ricercate attraverso la menzogna: mente per sopravvivere il bambino etiope di Vai e vivrai; mente il tedesco Zucker, barcamenandosi fra una vita sregolata e la prospettiva di un’eredità; da luogo a una gigantesca catena di equivoci il tentativo di una ragazza spagnola di presentare in maniera indolore alla famiglia ebraica il fidanzato palestinese ne Il mio nuovo strano fidanzato. Lo stesso Benigni, uno dei più calorosi cantori dell’amore familiare, prima e dopo essere stato il burattino scapestrato in cerca di genitori nel suo Pinocchio, ricorre a forme di finzione intra-narrativa per raccontare di un rapporto padre/figlio ne La vita è bella e marito/moglie ne La tigre e la neve. Tipicamente, dietro le famiglie serene dello schermo s’intravedono conflitti latenti, che diventano esplosivi in situazioni sociali quali cerimonie, festività, vacanze, pranzi familiari (la casistica e vastissima; si citano solo per la loro icasticità titoli come Parenti serpenti o Festen - Festa in famiglia). Se un film come La terra ci dispensa una versione italicamente buonista e pacificatoria del ritorno alle radici familiari, in certi casi la critica della famiglia assume toni decisamente più radicali. Cronenberg attraverso una storia di falsa identità racconta la History of Violence che pervade la società americana, implosa e repressa dietro la facciata della famiglia tranquilla; in Niente da nascondere un rimosso dramma familiare si carica del portato delle colpe di un intero sistema socioeconomico egoista, colonialista e razzista; mentre la necessità di mantenere un tenore di vita familiare socialmente esibibile giustifica le menzogne, i sotterfugi e i delitti di A tempo pieno o di Cacciatore di teste. In The Villlage l’idilliaca – benché percorsa da segnali sinistri – vita di una comunità rurale ottocentesca si rivela una ben organizzata impostura reazionaria di fronte alla corruzione e alla degenerazione della contemporaneità; ma e con The Truman Show di Peter Weir, del 1998, che la rappresentazione della famiglia come falso raggiunge una perfezione archetipica, ambientata com’e in un set letterale, prodotto ultimo della deriva della società dello spettacolo, mercificazione estrema della vita umana, dove tutto è finto tranne l’innocenza del protagonista che incarna il sogno sociale ipocrita, nostalgico e regressivo di un modello familiare perduto e dato ormai per irraggiungibile. New family La famiglia è morta. I padri sono fuggiti, morti, assenti. I figli sono abbandonati a se stessi. La trasmissione dei saperi e delle tradizioni e interrotta. Il sistema di vita indotto dal moderno sistema neocapitalista, il riposizionamento dei ruoli sessuali, i mutamenti sociali e culturali, il cambiamento della morale sessuale e familiare hanno disintegrato la coesione e la funzionalità della famiglia tradizionale. Allora, di famiglia, non resta che da reinventarsene una. Dissolta la famiglia naturale, non resta che costruirsi una famiglia d’elezione: è quello che succede di norma, ad esempio, nel finale dei film di Soldini. Pur di stare insieme, non si va troppo per il sottile e chiunque sembra poter andare bene: appetitosi animali commestibili come in Madagascar, precognitive distolte dal coma amniotico come in Minority Report, detenuti ergastolani come in Edmond; un’accozzaglia di operai pasticcioni e san papiers come in Travaux; una multietnica compagnia di omo-transessuali come ne Le fate ignoranti, fratellastri assassini come in Brucio nel vento, orchi verdi e flatulenti e ciuchini parlanti come in Shrek. In un titolo ecumenico come Me and You and Everyone We Know la ricerca di un rapporto, di una relazione, di un legame accomuna l’universo dei personaggi e attraversa tutte le generazioni – bambini, adolescenti, adulti, anziani – in una fitta geometria di mezzi e modalità di ricerca (o di rifiuto) di comunicazione. In alternativa, dopo il fallimento della famiglia naturale, si tenta di costruirsi una famiglia sociale, su base mistica-religiosa come in Cuore sacro, oppure in chiave di provocazione ideologica come nella comunità degli Idioti di von Trier. Salvo tornare al punto di partenza, come in Together dello svedese Moodysson: dove, fallita l’utopia sociale di una comune basata su presupposti politico-ideologici, si ripiega felicemente sull’utopia degli affetti. Tutti per uno, uno per tutti A conclusione di questa ovviamente non esaustiva e sicuramente tendenziosa carrellata tra i film che tematizzano o rappresentano, volenti o nolenti, una certa immagine della famiglia, non sarebbe giusto tralasciare di citare alcuni autori o film che assumono in questo contesto un ruolo paradigmatico. Citiamo solo di sfuggita alcuni autori che hanno fatto del nodo padre-figli il nucleo portante della loro cinematografia, come i Dardenne con il loro cinema sociale o il Salvatores che da un certo punto della sua cinematografica fa correre questo filo rosso sotto la superficie dei generi e dei toni più diversi, o Spielberg, che nell’arco della sua filmografia inanella parecchi dei temi e delle tendenze indicate nei paragrafi precedenti19. Ma alcune singole pellicole contengono in se stesse una sorta di summa dei temi di cui si è trattato, un campionario rappresentativo delle tendenze descritte; è il caso ad esempio di Nove vite da donna, che nella sua frammentarietà propone una galleria di scorci di vita con genitori inadeguati (la detenuta, l’invalido) od oppressori (il poliziotto violentatore), figli abortiti o morti, famiglie asfissianti, matrimoni sbagliati. Ancora più paradigmatico potrebbe essere Tutto su mia madre, di Pedro Almodòvar (che torna a parlare di anomale situazioni familiari nell’imminente Volver): in un unico film troviamo infatti il figlio scomparso, la paternità negata e rifiutata, l’ambiguità di genere sessuale all’interno della famiglia, il tema della rappresentazione e della finzione, la ricerca di una comunità degli affetti alternativa. Un tale accumulo di temi che il film avrebbe potuto essere posto a titolo di esergo in testa al presente scritto, come uno scudo araldico, in cui ai vari campi corrispondono temi e tendenze descritti.
* tratto da <<SegnoCinema>> n.139, Maggio-Giugno 2006, pp. 4-9
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