Percorsi (auto)formativi e scrittura del sé: per una riflessione sulla figura dell’insegnante nel cinema

Le figure del maestro e dell’insegnante hanno un profilo sociale ideale per le regole e le abitudini delle narrazioni cinematografiche, come abbiamo già avuto modo di evidenziare nella filmografia Davanti o dietro la cattedra, in Tra realtà e illusione, percorso di visione sul documentario scolastico, e in Maestri” del cinema. La figura dell’insegnante nel film e nel documentario, sulla figura dell’insegnante nei film di finzione.Prendendo spunto da una pubblicazione recente e importante come Maestri nell'ombra. Competenze e passioni per una scuola migliore, di Gianfranco Bandini e Caterina Benelli, proviamo a capire in che modo la rappresentazione degli insegnanti, nel cinema e nei media in generale, possa essere un ottimo veicolo per ragionare sul ruolo e la funzione dell’insegnante sia in senso auto-formativo (e autobiografico), che in senso condiviso e comunitario – ovvero insieme a classi e gruppi di ragazzi o colleghi – allo scopo di riconsiderare il senso attuale di certe figure educative.  

Il tentativo degli autori del volume citato di far uscire dal “cono d’ombra” e “portare alla luce” le storie di alcuni veri docenti di scuola primaria che hanno operato nella scuola italiana del Novecento, è dal nostro punto di vista “illuminante” e suggestivo: da una parte, infatti, gli autori scelgono come metafora dell’operazione quella dell’ombra e della luce, materie elettive di ogni film proiettato su un grande schermo, dall’altra mettono in atto un’operazione che ha a che fare, inevitabilmente, con le forme e le proprietà della narrazione finzionale, specie di quella cinematografica. I maestri cartacei, come quelli di celluloide, condividono una serie di caratteristiche che spesso i maestri in “carne ed ossa” non conoscono con la medesima intensità. Nel nostro ‘ragionamento’ è utile partire proprio da queste caratteristiche così spiccate:

1.     Affrontano percorsi che hanno una direzionalità precisa. La loro esperienza quotidiana, fatta di accadimenti e situazioni simili tra loro e ripetitivi, si trasforma, infatti, in un percorso ad ostacoli di profilo diacronico e “evolutivo” che richiede la messa in atto di una serie di azioni volte alla risoluzione di conflitti tra loro interdipendenti e concausali.

2.     Vivono contrasti con le istituzioni. Spesso gli insegnanti “narrativi” si trovano in contrasto con i rappresentanti delle istituzioni (dirigenti scolastici, programmi ministeriali, interventi degli enti locali), tanto da fornire un quadro della condizione dell’insegnante di profonda solitudine e di almeno iniziale incomprensione della sua azione da parte degli organi deputati alla sua valutazione professionale.  

3.     Acquistano una progressiva e ampia consapevolezza del proprio operato. Sono proprio i conflitti in cui sono proiettati e i contrasti con le istituzioni a garantire ai maestri la progressiva acquisizione di coscienza del sé e del proprio ruolo, una coscienza che generalmente poi viene trasmessa e testimoniata anche a coloro con cui entrano in contatto (studenti, colleghi, ecc…).

4.     Vivono in realtà emarginate, marginali, eccezionali. Che siano rurali e arretrate, suburbane e periferiche, multiculturali o disagiate, le realtà nelle quali lavorano questi docenti/personaggi sono spesso rappresentate con i tratti dell’emergenza e/o della marginalità. I maestri affrontano condizioni di lavoro eccezionali, non riconducibili, almeno non direttamente, a un’idea di quotidianità, di normalità, di consuetudine. 

5.     Lasciano tracce e testimonianze. La loro parabola diegetica è ricca di tracce, lasciate dietro di sé affinché qualche narratore possa raccoglierle e ricostruire così il filo delle loro esperienze. Dunque, materiali come fotografie, lettere, oggetti scolastici, e tutto ciò che può rendere concreto e tangibile un percorso biografico e più in generale narrativo, vengono utilizzati come punti di appoggio per ricostruire una biografia e dargli un senso compiuto e tangibile.

Se questi sono solo alcuni degli aspetti che i maestri nell’ “ombra” condividono con la maggior parte dei personaggi cinematografici, è il meccanismo stesso della narrazione a dirci qualcosa del processo di insegnamento o di conoscenza. Non tanto per i saperi che talvolta (ma non sempre) riesce a veicolare, ma per le forme di relazione che si innestano tra gli interlocutori della comunicazione,  gli enunciatori e gli enunciatari – direbbero i narratologi – tra i docenti e i discenti –  direbbero gli insegnanti.

Vediamo ora,  sempre per punti, perché.

1.     Nonostante l’eccezionalità delle biografie portate alla luce, chi scrive o dirige una narrazione audiovisiva cerca di attivare fenomeni di immedesimazione con chi legge/guarda, specie con coloro che condividono la medesima professione dei personaggi, ma che la vivono in una condizione di “normalità”. Non è un caso che – dei protagonisti/insegnanti – si rimarchino spesso caratteri come la competenza e la passione (sottotitolo del libro in oggetto), la loro fallibilità (l’avanzare a tentoni); che si evidenzino tanto gli elementi professionali, quanto quelli della vita privata; che si costruiscano dei doppi narrativi o delle situazioni di conflittualità manichea (un maestro e un allievo, un maestro e i suoi colleghi o i suoi superiori), il tutto per favorire una maggiore identificazione. Quelli brevemente descritti,  sono modi per istituire meccanismi di proiezione tra la sala e lo schermo.

2.     La dimensione diacronica e “progressista” di queste biografie risponde all’esigenza di motivare il lettore/spettatore, di infondergli fiducia sulle possibilità di trasformare, almeno in parte, l’esistente e di migliorare se stesso. In seconda battuta, garantisce una forma di riconoscibilità sociale e di riconoscenza da parte degli alunni, nonché la possibilità di dare senso e storicizzare un percorso professionale che, vissuto quotidianamente, spesso sembra non averne.

3.     Assistere alla visione di documentari e film che trasformano un personaggio qualunque in un “eroe” (pur con tutti i suoi difetti) significa, inoltre, ritagliarne la figura, liberarla dalla complessa rete di relazioni che ogni persona intesse abitualmente nella propria vita, nonché dalle tante parti in commedia che ognuno di noi di solito è costretto a giocare nella vita (professore, figlio, padre, marito, amico, sottoposto, cittadino, ecc..), per farla risaltare con maggior nitidezza, in tutti i suoi limiti, possibilità, errori e qualità.

Le figure dei maestri, nelle rappresentazioni cinematografiche, ma ovviamente non solo in quelle, rispondono insomma a una serie di esigenze che sono proprie di un ruolo e di una funzione sociale lontani, troppo spesso, dal dibattito pubblico (gli slogan che precedono tutte le campagne elettorali non bastano certo per attivare una riflessione approfondita sulle professioni formative e didattiche). Per fare ciò, le narrazioni elidono una serie di caratteristiche “connaturate” alla professione – quelle, come già detto, relative alla quotidianità dell’azione didattica, all’improvvisarsi di situazioni non prevedibili, alla ripetizione di certe azioni – e costruiscono un filo, una struttura, a un’esistenza non organizzata. In tal modo, trasformano le persone in personaggi, con il rischio di semplificare il profilo caratteriale e le qualità educative, ma in cambio entrano all’interno di un gioco meta-riflessivo potenzialmente intrigante: ogni lezione, ogni programma didattico, ogni intervento possono, infatti, essere letti in chiave narrativa, come unità di lavoro che si auto-organizza attorno alle caratteristiche proprie di un racconto (anche se non manifesto, anche se particolarmente edotto). In altre parole, le modalità di mettere in scena l’insegnante consentono a chi guarda di riflettere sulle sue modalità di “mettere in scena” sé stesso e i propri saperi nei confronti di alunni, colleghi, opinione pubblica.

Ciò è particolarmente evidente quando si osservano e si studiano sequenze in cui gli elementi autobiografici – e di conseguenza la ponderazione del sé e la sua presentazione pubblica – emergono con maggiore evidenza all’interno di un film o di un documentario. Vediamo qualche esempio.

 

Essere e avere Racconto di vita del maestro

L’unico momento in cui il maestro protagonista del film di Nicolas Philibert guarda la macchina da presa è in una fase di pausa dalla sua attività didattica. I bambini sono a casa, la scuola è vuota, il tramonto alle porte, i fiori del giardino curati. L’uomo, a quel punto, si siede e risponde alle domande del documentarista, raccontando la propria esperienza di ragazzo che sognava di diventare insegnante, dei sacrifici dei genitori, della motivazione che gli ha consentito di andare avanti nonostante le difficoltà di una classe unica. La dimensione intima della confessione, il racconto autobiografico, poggia le proprie basi su un’articolata e raffinata messa in scena cinematografica. La luce del sole al tramonto (il tramonto di un’esperienza professionale ormai prossima alla pensione) che taglia il suo volto, il silenzio dei campi per offrire una idea primitiva e rurale della sua condizione di maestro (ancora legato a vecchie tradizioni), la ricerca di una sorta di vocazione originaria («ho sempre desiderato essere un maestro») ci restituiscono una dimensione retrospettiva alla situazione messa in scena. Abbiamo a che fare con una confessione, con un diario intimo espresso oralmente. La solitudine del maestro (eroe) è accentuata.

Vedi la sequenza commentata (in spagnolo)

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Gli anni in tasca – I bambini non hanno diritto di voto

Ancora più celebre è una delle ultime sequenze di Gli anni in tasca di François Truffaut, quando il maestro tiene l’ultima lezione alla classe. Prendendo spunto dalle disavventure di un suo allievo – tolto alla famiglia perché vittima di violenze domestiche e affidato, dai servizi sociali, ad altri genitori –, l’uomo comincia una sorta di discorso retorico, emotivamente e intellettualmente coinvolgente, mirato a dare senso tanto alle sue azioni quanto a quelle (future) dei suoi allievi. L’insegnante si lamenta del fatto che i bambini non hanno strumenti per costringere gli adulti ad ascoltarli e a tutelarne i diritti, primo fra tutti lo strumento elettorale e democratico. Racconta di come dovrebbero reagire alle ingiustizie, confessa di fare l’insegnante perché a sua volta protagonista di un’infanzia infelice e ingiusta. Truffaut sceglie un meccanismo tutto sommato elementare (il discorso fatto alla classe) ma lo condisce con un gioco di posture e sguardi tra i personaggi (in modo particolare tra il maestro che siede sulla cattedra e i bambini che lo osservano attenti), collocando, non a caso, la sequenza alla fine dell’anno scolastico, come sorta di eredità esperienziale che il maestro offre ai propri studenti prima delle vacanze e del passaggio alla classe successiva.

Vedi la sequenza commentata

Vedi la fiche tecnica del film con un’intervista a Truffaut e informazioni sulla produzione (in francese)

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Sotto il Celio Azzurro – Le foto dei maestri

Il documentario di Winspeare è molto interessante perché mette a confronto, anch’esso, l’esperienza quotidiana di alcuni educatori di una scuola dell’infanzia con la loro storia umana, realizzando una sorta di “regressione” attraverso una carrellata di fotografie dei singoli educatori che parte da fotografie recenti e torna indietro nel tempo fino a foto dell’infanzia. La scelta narrativa operata dal regista è interessante perché frappone un momento dichiaratamente di finzione – la messa in scena di un ritorno indietro nel tempo attraverso fotografie domestiche, una musica di commento e un montaggio a pezzi brevi – dentro un flusso di immagini che palesano, al contrario, il loro carattere documentario. In questo modo si costruisce un senso al passato dei maestri, si sottolinea il loro essere stati bambini, si evidenzia l’importanza della storia di ognuno nel modo di lavorare e comportarsi con gli altri.

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Genitori e figli. Agitare bene prima dell’uso – Il compito in classe

Anche nei film comunemente considerati di “genere”, come la commedia all’italiana, si possono individuare momenti e passaggi in cui l’autobiografia ha un ruolo importante, pur nella logica di una messinscena leggera e immediatamente comprensibile. È il caso della sequenza in cui Alberto, padre in costante litigio con il figlio adolescente e insegnante del liceo, chiede ai propri alunni di scrivere un tema in cui devono offrire suggerimenti educativi agli adulti per consentire loro di capire i ragazzi e aiutarli a crescere. Lo spunto narrativo che consentirà a Nina –  una delle alunne della classe – di raccontare la sua complessa storia familiare, nasce dunque da un episodio della vita privata dell’insegnante, in un gioco di rispecchiamenti e doppi che individua bene quali sono le relazioni tra vita pubblica e ruoli sociali da una parte e vita privata e ruoli familiari dall’altra. La breve sequenza è ancora più interessante perché Alberto sottolinea il gap generazionale tra lui e i ragazzi della sua classe quando cerca di riscrivere alla lavagna una sorta di sms, che un suo alunno aveva scritto in un precedente tema, usando abbreviazioni come la k o i numeri. Il passaggio è indicativo perché mette in questione da una lato la storicizzazione della scrittura (e dei video), ovvero il loro innegabile invecchiamento, che li rende sempre meno appetibili con il passare del tempo, e dall’altro il bisogno di relazionarsi, direttamente o indirettamente, con il proprio auditorio, il quale di fatto è un interlocutore (attivo o passivo dipende dai casi) della propria (auto)rappresentazione.

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Les Choristes – I ragazzi del coro – L’inizio del flashback

Molto interessante, sempre sul piano della dimensione motivazionale e autobiografica, l’inizio del flashback presente in Les Choristes,quando due vecchi compagni di classe si incontrano per caso e rivivono la loro storia comune di allievi di un buffo, simpatico, intelligente, insegnante di canto. In questo caso è il ricordo di due ex studenti a costruire un profilo di insegnante, ancora una volta, simile a quello di molti film: il suo arrivo solitario nella scuola, la sua postura decisamente goffa rispetto ai colleghi, l’incapacità di accondiscendere alla punizione che l’autorità scolastica, qui interpretata dal direttore dell’istituto, intende infliggere a tutta la classe ritenuta indisciplinata, cui si aggiunge, in questo caso, l’apparente assenza di talenti carismatici che in qualche misura rappresentano la forza del personaggio, la sua maggiore “verità” e “normalità” rispetto ad altri.

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Quelli qui elencati sono solo alcuni, piccoli esempi tra i tanti che si potevano segnalare e commentare. D’altronde, i film sulle figure degli insegnanti sono  tanti e tutti potenzialmente interessanti. Molte altre sequenze sulle modalità di (rappresentazione dell’) insegnamento si possono trovare online, ad esempio in titoli come:

 

Vedi alcune sequenze su:http://www.youtube.com/watch?v=DO4NAkeXL1w, http://www.youtube.com/watch?v=gddhz1X3jXA

Vedi alcune sequenze su: http://www.youtube.com/watch?v=AxVK-gvWVaU, http://www.youtube.com/watch?v=f5d8nDMxgZM

  • Il maestro di Vigevano

Vedi una  sequenza su http://www.youtube.com/watch?v=ixu1sSN3KgY

Vedi la prima esilarante ed emblematica sequenza su http://www.youtube.com/watch?v=aXVWnX-FaFM

Vedi una  sequenza su http://www.youtube.com/watch?v=BwVMTn6z84U

Vedi alcune sequenze su: http://www.youtube.com/watch?v=nhDtikq2aZo, http://www.youtube.com/watch?v=6av3_tBSQS8&feature=plcp

 

In questi film, vengono messi in gioco molti elementi autobiografici di chi è dall’altra parte della cattedra. L’insieme di queste rappresentazioni ci dice che ogni storia personale, narrata a voce o scritta, in un film o altrove (nel teatro ad esempio), ha bisogno di immagini simboliche, di forme – più o meno consolidate – di figurativizzazione tali da consentire fenomeni di immedesimazione e proiezione del sé. Le immagini poi – tutte insieme – si compongono e si assemblano tra loro formando degli immaginari più o meno consolidati, più o meno in trasformazione. Immagini e immaginari cristallizzano certe proprietà dell’insegnamento, ma lasciano anche spazio a una riflessione più ampia e articolata che, ad esempio, si può concentrare sul levare piuttosto che sul mettere, ovvero su ciò che non si vede e non è rappresentato piuttosto che su quello che viene mostrato più o meno bene, più o meno verosimilmente. Sarà a seconda della direzione data ai percorsi intrapresi da ogni formatore che si potrà capire quanto lo specchio cinematografico, delle rappresentazioni iconiche, possa essere più o meno deformato, possa restituire un’immagine convincente o meno del sé, possa catturare lo sguardo dell’osservatore, facilitandone certe abitudini e aiutando a superarne delle altre. L’importante – a nostro avviso – è incamminarsi in qualche forma di percorso di riflessione e messa in questione della scrittura e della visione, elementi questi non più separabili al giorno d’oggi. Ignorare le rappresentazioni del sé – e le tracce scritte che vi si contrappongono – è deleterio, specie per chi ha intenzione di ragionare sulla propria identità professionale.

 

Marco Dalla Gassa